Everybody’s Gone to the Rapture – Recensione

Ero addirittura allibito, l’altra mattina alle sei, al termine del mio primo playthrough di Everybody’s Gone to the Rapture. Codice review messo in dowload nel pomeriggio, partita iniziata a mezzanotte, per trovarmi di fronte a un personaggio che si muove esclusivamente a passo lento, oltretutto in una mappa alquanto vasta, e che mai e poi mai avrei creduto capace di farsi seguire ininterrottamente per sei ore di fila, ipnotizzandomi senza pietà. Arrivare a un’ora del genere per un gioco non è cosa nuova per nessuno di noi, ma personalmente tendo a buttarmi con questa foga nella notte, fino alle prime luci del mattino, solo davanti a un grande romanzo di fantascienza, o a un ottimo ARPG, in cui la densità degli eventi è più forte in tutti i casi, anche se nel primo devi immaginarteli. [quotedx]Un racconto sci-fi che procede in maniera inaspettata, tutt’altro che banale[/quotedx]
Ecco, la parola giusta è proprio “immaginazione”: al contrario di ciò che avviene in troppi videogiochi costruiti attorno alla narrazione, nella creatura di The Chinese Room sei obbligato a far lavorare il cervello direttamente sulla trama, non per risolvere enigmi o applicare tattiche d’azione ma, al contrario, per comprendere, visualizzare ed elaborare ogni dettaglio del racconto. Un racconto sci-fi, per la precisione, che parte da elementi riconoscibili – fantascienza quantistica stile Interstellar, uno strano virus influenzale che si rivela “altro” – e li porta in una direzione inaspettata o, comunque, ben lontana dalla banalità. Non vedrete una sola faccia, in Everybody’s Gone to the Rapture, e giocandoci comprenderete che vederla sarebbe stato semplicemente di troppo.

Tracce di ignoto

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Quelle di The Chinese Room sono storie molto precise, scomposte in tanti piccoli pezzi che, in forma non lineare, il giocatore ha la possibilità (ma non il compito) di rimettere insieme. La vicenda di Everybody’s Gone to the Rapture ha inizio all’osservatorio astronomico della fittizia cittadina di Yaughton, nel pieno degli anni ’80, dove si intrecciano le vite della Dottoressa Kate Collins, principale personaggio della storia (non strettamente “protagonista”, almeno non nell’accezione comune), del suo compagno Stephen, anch’egli astrofisico, e di diversi cittadini più o meno consapevoli di ciò che sta per accadere, come l’agricoltore Frank, padre Jeremy o la dolce Lizzie. La struttura del racconto è in qualche modo vicina a quella di Dear Esther – esplorazione in soggettiva, diversi stralci di storia che si attivano recandosi in un luogo piuttosto che in un altro – ma con alcune significative differenze: non c’è la voce calda del narratore, sostituita da dialoghi di relazione fra i vari personaggi, all’interno di uno scenario che si dipana su diramazioni più vaste e articolate, esattamente come la storia che racconta; abbiamo poi alcune tenui indicazioni sotto forma di “fiammelle” che danzano negli scenari – intorno a conversazioni o azioni significative – e che ci portano ad ascoltare tante vicende apparentemente sconnesse tra loro, a cercare di ricomporle nella testa, quasi infastiditi dal non poter immediatamente percorrere l’intrigante storyline principale.

[quotesx]La struttura del racconto è in qualche modo vicina a quella di Dear Esther, ma con alcune significative differenze[/quotesx]Ed è qui che Everybody’s Gone to the Rapture riesce a conquistare: pian piano, tutti i personaggi (a cui sono dedicati i titoli delle sezioni di gioco, morbidamente sovraimpressi sul continuum del gameplay) iniziano a prendere corpo nella nostra immaginazione, a vivere in quei luoghi vuoti, ad appassionare per il loro “normale” approccio all’ignoto, per la loro vicenda di vita e per cosa stavano facendo nel momento finale, quando l’ora è arrivata. La storia di Stephen e Kate (lui nativo del posto, lei brillante scienziata dal comportamento ben poco socievole) è di gran lunga quella centrale, insieme alla comparsa e al prolificare di una strana “invasione”, ma non avrebbe lo stesso spessore senza le vite di un’intera comunità, senza l’apparente incoscienza dei ragazzini che volevano scappare, o anche l’illusione di chi, al contrario, si sentiva al sicuro nel proprio, piccolissimo mondo. Chi è interessato alle fonti d’ispirazione (in bell’evidenza c’è anche un riferimento a Philip Dick, direttamente nel nome dell’osservatorio, VALIS) può affidarsi alle interviste di The Chinese Room, in cui vengono indicati alcuni romanzi inglesi degli anni ’60, ma il risultato rimane estremamente autonomo per come la trama si sviluppa e viene offerta al giocatore, in una forma un filo più diretta del solito ma non per questo meno efficace. La durata è quella che vi ho indicato all’inizio, più vicina ad Amnesia: A Machine for Pig che non al brevissimo Dear Esther, anche se ovviamente è a quest’ultimo che Everybody’s Gone to the Rapture si avvicina per intenti e struttura, ampliandosi in un open world orgogliosamente sui generis. Dello spin-off “autorale” di Amnesia: The Dark Descent non ho trovato molto altro, se non a livello di suggestioni: l’atmosfera, sottolineata dalle belle musiche (l’autrice è sempre Jessica Curry, composer e director del team) e da suoni ottimamente orchestrati, in alcuni frangenti è diventata così densa e opprimente da costringermi a voltarmi, istintivamente, con il terrore di incrociare una qualche indicibile visione.

Apocalittica Sintonia

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Un difetto molto relativo, a fronte di un titolo che potrebbe non averne a seconda di come lo si guarda, risiede nell’approccio ancora timido ai controlli e all’interattività. Da un lato abbiamo una ricostruzione d’ambiente molto efficace, seppur non al livello di The Vanishing of Ethan Carter, impreziosita dall’utilizzo creativo che gli sviluppatori (coadiuvati tecnicamente da SCEE Santa Monica Studio) hanno fatto del CryEngine, in particolare nella gestione delle luci dinamiche e degli effetti meteorologici. Dall’altro, però, proprio l’efficacia delle ambientazioni porta a desiderare una forma più avanzata di interazione, non necessariamente funzionale ma anche solo ed esclusivamente a livello d’atmosfera.
[quotedx]La sensazione, spesso magnifica, è di trovarsi di fronte a un dipinto iperrealista da esplorare liberamente[/quotedx]
La sensazione, spesso magnifica, è di trovarsi di fronte a un dipinto iperrealista da esplorare liberamente, che tuttavia avrebbe potuto diventare ancora più intenso e “violabile”, senza perdere nulla in termini di fascino. Ciò non vuol dire che quel che è stato inserito non funzioni, o che non abbia un senso: la semplicità dell’esplorazione (levette per muoversi e guardare, qualsiasi altro pulsante per aprire porte o premere interruttori) fa parte delle scelte consapevoli e sensate dello sviluppatore, così come la lentezza del movimento che ci viene imposta lungo l’esplorazione; nondimeno, una spruzzata di fisica newtoniana “spicciola” (come in Gone Home, per intendersi) non avrebbe fatto male al quadro generale, se non altro per una questione di pura e semplice immersione. Mi è piaciuta di più, invece, la gestualità affidata ad alcune scoperte, sotto forma di fiammelle immobili che contengono dialoghi opzionali e necessitano di una sorta di “sintonizzazione”, ruotando gli assi del DualShock fino a materializzare la scena. Anche la qualità della localizzazione va inserita fra gli aspetti positivi: il nostro consiglio è sempre di godersi i dialoghi originali, per chi ha la giusta padronanza dell’inglese, ma la qualità dei doppiaggi e della traduzione risulta in questo caso particolarmente elevata, complice il linguaggio semplice e diretto adottato da The Chinese Room. Non è detto, però, che riusciate a comprendere tutto al primo giro: a me sono rimasti alcuni punti da chiarire, alcuni dei quali tutt’altro che trascurabili, e spero di risolverli nella prossima e appassionatissima “passeggiata”. La strada ormai la conosco, da Kate a Stephen, nell’immobile valle di Yaughton, con in mezzo tutto l’universo.